Papa Francesco e la cultura dell’incontro

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Incontro svoltosi la sera del 3 ottobre del 2014 alle ore 20;00 presso il centro culturale “Ruah-Action” (via Rasella, 54 – Roma) a cura di Alberto Di Giglio. Sono intervenuti Giovanbattista Brunori (giornalista, vaticanista del TG 2); Gaspare Mura (ermeneuta, filosofo delle religioni); Roberto Cipriani (sociologo); Stefano Valente (filosofo). Qui riportiamo una sintesi dell’intervento di Stefano Valente.

 

 

Papa Francesco – ed è sotto gli occhi di tutti – pratica ogni giorno del suo pontificato quella che lui stesso ha chiamato “la cultura dell’incontro”. Ora per evitare che una cultura dell’incontro diventi una retorica dell’incontro bisogna passare dalla pratica alla teoria: ovvero bisogna passare da una cultura dell’incontro ad una filosofia dell’incontro.

 

Da dove partire? Dalla moderna filosofia del soggetto (a partire dall’io penso cartesiano per arrivare almeno al tu devi kantiano ed oltre su su almeno fino ad Hegel). Tale filosofia si è espressa in maniera esemplare come gnoseologia ovvero come filosofia della conoscenza. Il paradigma fondamentale di questa filosofia è la struttura soggetto-oggetto, per cui si darebbe un soggetto che conosce un oggetto postogli di fronte (ob-iectum: ‘gettato davanti’ appunto). Ora non sarà difficile dimostrare come partendo da questa struttura soggetto-oggetto sia impossibile pensare quello che ancora in modo paleo-soggettivistico viene chiamata inter-soggettività.

 

Se il soggetto non può non avere di fronte che un oggetto, allora si creano queste due situazioni opposte: o l’altro cade nel mio campo visivo oppure sono io a cadere nel campo visivo dell’altro. Esaminiamo il primo caso. Se non si può sfuggire al paradigma soggetto-oggetto questo significa che ogni altro soggetto che cada nel mio campo visivo (coscienziale) viene ridotto ad oggetto e, quindi, reificato in quanto non riconosciuto come quell’altro soggetto che è. Sulla base di questa struttura non potrò che incontrare che oggetti e non mai soggetti. Nel secondo caso, invece, sarò io a cadere nel campo visivo dell’altro e quindi sarò io a fare l’esperienza della mia reificazione, per cui sono portato a pensare ad un mio paradossale se non proprio contraddittorio ‘sentirmi-oggetto’. Questa strana condizione, dove ad essere s-oggetto di reificazione sono io e non più l’altro soggetto, è quella che, per esempio, Sartre (in “L’Essere ed il Nulla”) chiama la vergogna. Qui però non si tratta di una vergogna di ordine morale, bensì di una vergogna ontologica.

La vergogna è un termine che subito ci richiama il passo del cosiddetto ‘peccato originale’ così come è raccontato nel libro del Genesi. Ora vorremmo brevemente richiamare quel passo per fare alcune considerazioni. Innanzitutto vorrei ricordare che tra le conseguenze immediate del peccato c’è la vergogna. Ma ciò non basta: infatti già nel racconto del Genesi c’è un passaggio che collega la questione del peccato (e quindi della vergogna per il peccato) al tema dell’oggettività come reificazione dell’altro soggetto. Eva presta ascolto al serpente, che in questo caso potremmo considerare come il primo teologo in quanto è il primo che nelle Scritture non parla a Dio, ma parla di Dio, facendo di Dio oggetto di discorso così riducendolo a tema – in qualche modo ‘reificandolo’. Dopo essersi fatta irretire dal serpente Eva comincia a vedere l’albero della conoscenza del bene e del male in modo nuovo: La donna osservò che l’albero era buono per nutrirsi, che era bello da vedere e che l’albero era desiderabile per acquistare conoscenza; prese del frutto, ne mangiò e ne diede anche a suo marito, che era con lei, ed egli ne mangiò (Genesi 3,6). Quest’albero comincia ad essere visto come: uno, buono, bello e vero… insomma quelli che sono gli attributi trascendentali di Dio secondo la filosofia scolastica! In altre parole facendo Dio oggetto di discorso è arrivata a scambiare un albero (un ente) per Dio stesso. Questo non significa soltanto che Eva ha sostituito Dio con un idolo senza neanche accorgersene; significa anche che ha reificato l’Altro (qui Dio).

 

Eva – non ha solo sbagliato albero – ma si è aspettata la vita dall’albero della conoscenza del bene e del male (Cfr. Lord Byron, Manfred), da qui il suo peccato. Sulla base di questo riferimento alle Scritture, che sarebbe meritevole di ben altro sviluppo (essendo questo un passo decisivo per molti versi), possiamo parlare della gnoseologia (la filosofia della conoscenza) come del peccato originale filosofico per eccellenza; naturalmente stiamo facendo riferimento a quella filosofia della soggettività (posta come principio) che ha come suo corollario proprio la moderna filosofia della conoscenza.

 

Torniamo a Sartre. Ci sono solo due modi per reagire a questa intollerabile condizione di ‘sentirsi-oggetto’ per il soggetto schiacciato dal peso dello sguardo dell’altro: 1) o ripiegarsi su se stesso per sprofondare nella propria vergogna; 2) oppure odiare l’altro ovvero: distruggere l’altro soggetto e così liberarsi dal suo sguardo reificante semplicemente distruggendolo. Se poi non si riesce nella distruzione dell’altro, allora si apre il campo per la hegeliana dialettica servo-padrone, che prende anche il nome di ‘lotta per il prestigio’; lotta che viene portata a tal punto avanti che il soggetto è pronto a rischiare anche la propria morte. Certo non è qui la sede per discutere di questa dialettica che tra l’altro ha conosciuto una sua ripresa in campo marxista (non c’è da stupirsi se in quel contesto si è arrivati addirittura a parlare di ‘odio di classe’) – ci limitiamo ad affermare che ciò che in tale dialettica (per cui il servo diventa il padrone del padrone ed il padrone diventa il servo del servo) ci sembra pernicioso è proprio l’aver postulato da parte di Hegel i due lottatori come due soggettività già costituite che poi si fronteggiano e che proprio per questo si escludono a vicenda. Infatti dove c’è soggetto non può che esserci oggetto; non basta poi parlare di questa riduzione ad oggetto del soggetto come ‘alienazione’ rispetto alla quale il soggetto stesso deve riprendersi per finalmente emanciparsi diventando padrone di se stesso. Il soggetto così emancipatosi (che sia lo spirito hegeliano oppure la classe operaia) sarebbe sempre un soggetto tutto chiuso nella sua solitudine di soggetto assoluto.

 

É pernicioso (cioè ha conseguenze esiziali per chi come noi voglia pensare una filosofia dell’incontro) partire come fa Hegel dal fatto che si diano due coscienze già costituite l’una indipendentemente dall’altra che solo poi si fronteggerebbero. Ora la lotta per il prestigio, o meglio: per il riconoscimento rende stranamente impossibile la riconoscenza (non è un caso che sempre Sartre abbia potuto affermare che “l’inferno sono gli altri”).

 

Se, però, non posso avere l’altro soggetto fuori di me e davanti a me – perché ogni cosa che cada nel campo visivo della mia coscienza viene necessariamente oggettivato, reificato, cosificato – allora l’altro soggetto lo devo avere necessariamente dentro di me! Questa è la conclusione sconcertante a cui giunge un filosofo come Giovanni Gentile (nella sua opera postuma: “Genesi e struttura della società”, pubblicata nel 1946) che accetta, fino a fondarci sopra tutto il suo pensiero, il paradigma soggetto-oggetto, portato alle sue estreme conseguenze proprio dalla tradizione idealistica a cui egli stesso si richiama e di cui vuole essere il continuatore e l’inveratore.

 

L’altro è già da sempre dentro di me perché è proprio grazie all’altro soggetto che io sono stato costituito come quel soggetto che sono – per cui io sono l’altro (Cfr. Arthur Rimbaud) prima ancora di avere un altro (di fronte).

 

Quindi non dobbiamo pensare astrattamente la ‘cultura dell’incontro’ come se prima ci fossero due o più soggetti che poi entrerebbero in relazione – questo sarebbe ancora un paleo-soggettivismo ed un cripto-soggettivismo.

 

In verità noi ci incontriamo senza esserci dati appuntamento in quanto non abbiamo relazioni, ma siamo relazioni; in quanto prima di avere un altro (di fronte) noi siamo un altro. Il soggetto è già da sempre alterato (questo è anche un modo di evitare di pensare la comunità prima della comunità – fallacia messa in luce da Hegel stesso).

Tuttavia c’è almeno un altro possibile sviluppo della situazione che qui vogliamo almeno trattare di sfuggita; quello che potremmo chiamare ‘rovesciamento dell’appercezione trascendentale” (per usare il termine con cui Kant si riferisce al soggetto così come lo abbiamo qui inteso). Il grande filosofo russo Florenskij ci viene in aiuto quando a proposito delle icone parla di ‘prospettiva rovesciata’. Con questo termine Florenskij sembra dirci che nel caso delle icone avverrebbe una specie di rovesciamento dello sguardo. É il soggetto moderno che per mezzo dell’artificio prospettico inquadra il mistero nei suoi schemi spaziali e concettuali così riconducendolo a rappresentazione senza residui di sorta. Ma il mistero è propriamente l’irrappresentabile che eccede sempre la rappresentazione –  pena il suo essere reificato dalla rappresentazione stessa secondo una dinamica che abbiamo imparato a riconoscere. Nell’esperienza con l’icona avviene questo rovesciamento della prospettiva, per cui è l’icona a preparare un posto per noi nel mistero (esempio di ciò è il posto lasciato vuoto per noi attorno alla tavola dove siedono i tre angeli nella celebre icona della Trinità di Andrej Rublev). C’è un rovesciamento della sguardo per cui ci riconosciamo guardati dall’icona senza con ciò sentirci-oggetti di uno sguardo reificante, perché lo sguardo che si posa su di noi è uno sguardo d’amore, che ci dona a noi stessi. Il volto dell’icona ci restituisce a noi stessi semplicemente guardandoci con uno sguardo d’amore – fino a che punto un tale rovesciamento dello sguardo che non aliena è pensabile? Questa è la sfida.

 

Il volto dell’icona, essendo l’icona tutta volto, non è semplicemente la rappresentazione dello spirito (ancora Hegel) che lo spirito del soggetto e/o il soggetto come spirito riconoscerebbe come rappresentazione sua e non solo come una sua rappresentazione – infatti il volto dell’icona si presenta (!) più che si rappresenta. Qui è il caso di parlare di una vera e propria visitazione (Cfr. Luca 1,39-45) come “fenomeno negativo” (Cfr. M.M. Olivetti, Analogia del soggetto, testo fondamentale per comprendere le questioni che qui ci occupano) cioè l’apparire di una sparizione!

 

Il volto dell’icona non si presenta, poi, per pavoneggiarsi e mostrarsi affacciandosi dal balcone della rappresentazione, non si presenta per farsi impudicamente vedere (a tal proposito lo psicoanalista Michele Bianchi parla di “una icona che pudicamente abbassa lo sguardo”); ma si affaccia il tempo necessario al suo ritrarsi.

 

 

 

Stefano Valente