LA SOLITUDINE : CONVINZIONE UMANA O PURA REALTA’?

 

Selvaggio della foresta,

 

negli odierni tempi di un’era digitale e tecnologica emergono frequentemente fenomeni nuovi, come quello che è noto col nome di cyber bullismo e che miete molte vittime derise anche da migliaia di persone per chissà quale assurdo difetto che l’invidia e la crudeltà portano a trovare.

In un’era ove Onestà degenera in Menzogna, Reciprocità di rispetto in Derisione, ed Umiltà in Superbia, è facile avvertire il tremendo peso della solitudine.

Solitudo è essenzialmente “assenza di aiuto”: si è soli quando a mancare è il sostegno nell’istante dell’urgenza, quando le mura crollano sul solus, troppo debole per vincere un determinato ostacolo che il mondo ha obbligatoriamente da presentare al cospetto dell’ homo vivens et cogitans.

 

Va chiaramente però posta una domanda che soltanto a primo impatto parrebbe banale, ma che nasconderebbe poi secoli di riflessione: si è soli o ci si sente soli?

La solitudine è insomma qualcosa di concreto, o è l’uomo ad avvertirla nelle complesse circostanze del percorso impervio?

“Sono solo”.

Chi ode una simile affermazione non può obiettare nulla da un punto di vista prettamente linguistico e grammaticale. Una frase semplice, quanto però ricca di vita e di significato. Ma ecco,sì può davvero essere soli in presenza di una forza così possente come quella del cogito, in presenza di un misticismo che vivifica ulteriormente ciò che è vivibile?

“Sono solo” è un’affermazione razionale ed empirica nel contempo: razionalmente, mediante la mentis cogitantis vis, ovverosia la maestosa forza che vivifica ogni pensiero ed ogni mente, si constata la solitudine.

Certo è che se non s’avverte aiuto, se non si percepisce assistenza, si può logicamente affermare che si “è” soli.

Empiricamente invece l’esperienza, che si serve della concretezza, porta a confermare l’assenza di una personalità che si definisca volenterosa e fornisca il suo supporto, pertanto anche senza ricorrere ad astrazioni si impone al pensiero che si “è” indubbiamente soli.

Razionalismo ed empirismo pertanto sarebbero concordi e farebbero gridare all’unisono ai loro sostenitori e divulgatori che l’uomo “è” solo, e non avverte una qualche sensazione particolare. L’uomo può dimostrare concretamente, vista l’assenza materiale, di non ricevere alcun supporto morale o ugualmente fisico e materiale in senso più generale.

La domanda ritorna però nelle menti di chi non può fare a meno di cogitare:

 

SI “E’”SOLI, O SI “AVVERTE” LA SOLITUDINE DI CUI SI PARLA E SI DA’ TANTO DIMOSTRAZIONE?

 

 

 

Mio caro selvaggio, anche tu ti sarai certamente posto questo quesito qualche volta, o probabilmente anche inconsciamente hai avvertito una qualche necessità di chiarezza.

Ebbene, posso dirti che è chiaro che non si possa essere soli. E’ l’uomo a voler respingere l’altro che vuol condividere col suo prossimo il tesoro, è proprio lui a fare a meno dell’altro quando non ne ha davvero bisogno, negando a se stesso la possibilità di ricevere supporto nel vero istante dell’urgenza.

E’ da questa negazione che l’ingranaggio inizia a muoversi e a produrre i suoi effetti viziosi e negativi: se l’uomo rifiuta il suo prossimo in favorevoli e benevole circostanze, perché lo stesso volenteroso dovrebbe poi essere cercato nelle sole avverse pianure?

E l’uomo poi avverte questa atroce solitudine che lo dilania ampiamente, portandolo a servirsi del cogito e della sua potente razionalità e, in estremi casi, del campo empirico delle cose, per poter asserire in definitiva di essere solo, abbandonato a se stesso, impossibilitato a proseguire perché l’altro non lo sostiene.

Se l’uomo rifiuta, per la legge chiaramente umana della Reciprocità di rispetto, anche il suo prossimo, una volta rifiutato, vorrà rifiutare la proposta successiva, per una sorta di discorso di principio e per una particolare etica che gli è propria e che è inevitabilmente connaturata nel suo animo.

Non si può essere soli in concreto, se notevole e immenso è il misticismo che permea la realtà, e se persino la modalità del pensare è concepita come una forza.

In presenza di forze fisiche e mentali, devono essere presenti tante altre forze, anche morali, il che significa che persino il pensiero può essere considerato elemento di fortificazione e supporto.

Si avverte una gran solitudine dinanzi ai sentieri più impervi, dinanzi ai rovi chiaramente pungenti, ma in realtà, se è già presente anche il solo cogito che poi di conseguenza porta ad affermare una solitudine che esiste in concreto, non si è più soli: ecco, è il cogito ad aver “supportato” l’uomo nell’elaborazione di una concezione che poi egli fa “propria”.

L’essere umano pertanto percepisce una solitudine che è sostanzialmente assente; ti dirò di più, selvaggio della foresta, la solitudine l’uomo se la crea come autodifesa, per non proseguire, per vittimismo, per una finzione di debolezza atta all’immobilità d’animo e di corpo. Eppure il pensiero non è così immobile nell’istante in cui l’essere umano vuole elaborare la sua personale concezione di autodifesa.

Se allora il cogito sostiene l’uomo, lo fanno anche i pensieri, sublimi avversari ma anche consiglieri di vita; ed ecco, se in concreto non v’è una personalità che aiuti il “finto solus”, ve n’è una astratta.

E ancora, oltre al cogito, l’uomo è coadiuvato dal sogno, che lo allieta e gli prospetta un futuro che potrebbe essere migliore o peggiore. Ma anche nel peggiore dei casi l’uomo è sostenuto, in quanto già conosce la crudeltà che lo attende, e cerca di arginare gli eventi futuri che lo attendono proprio dietro l’angolo, proprio all’incrocio tra sentieri, proprio alla curva della stessa strada percorsa in un particolare istante del suo tragitto.

 

L’homo vivens et cogitans è quindi costantemente sollevato, e grazie alle sensazioni e alle potenti forze morali e spirituali sa rialzarsi senza eccessi di fatiche.

Mio caro selvaggio, l’uomo gioca le sue carte sulla difensiva, inconsapevole di come l’immateriale impregni il reale e lo inumidisca di misticismo.

 

 

 

Davide Cerrato