LA SCRITTURA, UN SUBLIME “MONSTRUM”

     

Non capirò mai quel sublime “monstrum” della scrittura. Monstrum perché da un lato spirito mostruoso, terrificante e, per usare un termine che Stesicoro rivolse alle figlie di Leda e Tindaro prima della ritrattazione avvenuta nella Palinodia, “lipesànoras”, abbandona uomini; dall’altro spirito eccezionale e prodigioso, che salva l’uomo e gli da’ modo di rifugiarsi in quei mondi nuovi che crea, in quelle realtà alternative, tragiche o serene, che sono frutto del suo ego, del suo estro inventivo.
Non capirò mai perché quel monstrum sia tale, perché sia un’entità tanto benevola quanto crudele: la scrittura a tratti seduce l’homo vivens e cogitans, rivelandosi Musa ispiratrice per la sua stesura di pensieri confusi, Ordine per quei pensieri stessi, a tratti lo abbandona dopo averlo baciato, senza avvertirlo della sua futura assenza, senza renderlo partecipe del tempo di quell’allontanamento.
L’homo scribens improvvisamente da scrittore diviene buono a nulla, e da poeta un disprezzato miserabile. E’, alla maniera pascaliana, un re decaduto, che ha perso le sue fortune e che ne avverte una tremenda e assillante nostalgia. Quel fideista di Blaise Pascal però parlava di uomo come re decaduto in relazione al fatto che egli fosse stato prima a contatto, nelle vesti di Abramo, con Felicità e Verità nel giardino paradisiaco di Dio, e poi fosse stato cacciato da quel paradiso a seguito del peccato del frutto mangiato, mentre io definisco l’uomo un re decaduto per via del fatto che egli perda le sue ricchezze, costituite dalle creazioni derivanti dalla scrittura.

Un improvviso lapsus di idee quello dell’uomo a seguito della perdita della sua Musa ispiratrice, o potrei dire un vuoto apparentemente incolmabile: apparentemente perché quella terribile traditrice poi torna, come se nulla fosse accaduto, e l’uomo ritorna a creare mondi senza rimproverarla. Le chiede però di non abbandonarlo più in balia della tempesta del reale; una richiesta che mai troverà piena realizzazione, un desiderio irrealizzabile.
La scrittura è e rimarrà questo sublime monstrum che mi accingo a descrivere, perché tale è la sua natura. E la scrittura la natura non la cambia mica, è uno spirito libero che un giorno inebria l’uno, un giorno l’altro. E l’uomo è ebbro della scrittura quando ella ritorna, anche se il suo errore principale è quello di non servirsene abbastanza,  lasciandosi ingannare con la stessa facilità con cui un padre, giocando con il proprio bambino, finge di porgli il giocattolo innanzi e poi lo solleva in alto: così come il bambino, a causa della sua statura, non può facilmente afferrare il giocattolo che tanto vuole, a meno che non sia il proprio genitore a cederglielo, alla stessa maniera l’uomo non può afferrare la scrittura se non è essa a calarsi sul suo capo e ad estasiare il suo animo.
Tenera ingannatrice, oltre che monstrum: si prende gioco di quell’uomo che si accinge a vivere e pensare, ne fa oggetto di derisione per riposarsi ed allietarsi, e poi ricorda che magari l’uomo che ella stessa lascia su quel legno in balia della tempesta, tra le onde brutali e selvagge di un mare troppo feroce, gli da’ almeno un qualche valore, non facendola vagare tra i venti che spingono le nuvole in qualche luogo nuovo.
Ma forse la natura di monstrum di quell’ingannatrice è una conseguenza dell’uso costante che l’uomo ne fa, anche per le questioni burocratiche: ella probabilmente prima adorava l’uomo, non era solita lasciarlo solo proprio per questo amore incondizionato. Ma l’amore poi divenne schiavitù, e a quest’ultima la scrittura non volle sottostare; così, per punire quell’homo vivens et cogitans, volle canzonarlo in tal modo, assentandosi e poi ripresentandosi.
E l’uomo, già debole per natura, si cruccia giorno dopo giorno, in un contrasto che è pari ad un tornado che lo sbatte in ogni direzione.
Si tormenta dinanzi alle carte, tra cui pensa di ritrovar pace, di rifugiarsi dalla complessità di quella realtà che lo sfinisce e prosciuga le sue forze. E poi magari non ritrova la scrittura seduta a tavola con lui, non la avverte nel suo animo, e capisce di averla perduta per qualche tempo.

Davide Cerrato