Qubo Quasi Quadro. Un’operazione di Emiliano Yuri Paolini

 

2013-09-01 17.06.31

 

L’idea. Tre sono le fasi in cui si articola la costruzione dell’opera. 1) In un primo momento viene costruita una intelaiatura in legno di forma cubica ( 3m x 3m x 3m ). Su questo scheletro sono tese delle tele bianche che andranno a formare le facce del cubo. Su di una delle facce di tela del cubo è aperta una fessura, un taglio abbastanza ampio da consentire l’entrata a dei bambini; bambini che effettivamente vi entreranno dopo essersi immersi in apposite vasche contenenti diverse vernici colorate – così muovendosi dentro la struttura cubica involontariamente non potranno che “sporcare” di colore le sue facce interne. Affinché tutte le tele, che costituiscono le facce del cubo, siano accessibili ai bambini, in modo che tutte quante possano essere attraversate ed abitate dai bambini, il cubo sarà rovesciato ( messo sottosopra ) in modo tale che anche la parete di tela in alto, diventata base, possa anch’essa essere attraversata e quindi colorata dai bambini. 2) Una volta usciti i bambini dalla struttura, sarà tolta l’intelaiatura in legno che teneva insieme le facce interne del cubo e la grande tela verrà adagiata a terra ( andando a formare una specie di tappeto colorato a forma di croce ) mostrando apertamente ciò che resta della presenza dei bambini che in precedenza hanno abitato il cubo ( cubo che l’artista chiama anche “casa” e “scrigno” ). A questo punto degli adulti ( anch’essi anonimi come anonimi erano i bambini ) saranno invitati a calpestare la tela adagiata a terra così attraversandola in lungo ed in largo. 3) In ultimo la tela così colorata, aperta, attraversata e calpestata sarà appesa ad un ampio muro ( alto almeno una quindicina di metri ) andando a formare una croce.

Prima di tutto alcune considerazioni di carattere formale. Un ottimo modo per tentare di “entrare” nell’opera è quello di partire dal titolo che nelle intenzioni dell’artista non ha soltanto un valore di tipo descrittivo; anzi, il titolo con la sua evidente stranezza è già in grado di indicarci la via per comprendere l’ardua operazione messa in atto dall’artista. Il titolo in una sua parte ci dice che non stiamo di fronte ad un quadro, bensì ad un Quasi Quadro. Quello che abbiamo davanti non è un semplice quadro se non altro per le dimensioni monumentali ( ricordiamoci che si tratta di una tela alta 12 metri per 9 metri di larghezza ) e poi la sua forma: una croce! Tuttavia questi elementi da noi descritti sono la spia di ben altro. Qui, infatti, è in gioco lo stesso statuto di quello che da un certo momento in poi abbiamo convenuto di chiamare “quadro”. L’artista sta cercando di mettere in questione la natura dell’arte visiva insieme alla sua autonomia. Per comprendere ciò ( per comprendere, cioè, tutto il senso ed il nonsenso dell’operazione artistica tentata da Paolini ) bisogna non dimenticare la funzione di quello che abbiamo chiamato il secondo momento della costruzione dell’opera. Prima di venire appesa in verticale su un muro la tela è distesa a terra in orizzontale. A causa di questo passaggio la tela affissa al muro alla fin fine non può essere considerata in tutto e per tutto un quadro. Ma che cos’è un quadro, cos’è un dipinto?

Se è vero che il significato e lo statuto di una determinata forma d’arte va cercato in quei tratti ( i suoi mezzi espressivi) che la distinguono dalle altre in tal modo fondando e costituendo tale forma d’arte nella sua autonomia; allora un quadro, un dipinto per essere tale deve essere costituito e compreso nei suoi tratti essenziali che sono: superficie ( bidimensionalità ); verticalità; linee, forme, colori. Come si può notare questo tipo di approccio mette fuori gioco l’elemento mimetico che ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella comprensione di quell’arte che è la pittura. Isolando questi tratti propri alla pittura e ad essa soltanto fra le arti si passa da un approccio di tipo etero-referenziale ad un approccio di tipo auto-referenziale allo scopo di comprendere lo statuto ( una volta si sarebbe detto “essenza” ) della pittura. Di contro a questa pittura che cerca il suo significato fuori di sé, abbiamo una pittura che trova il suo senso in sé e che, quindi, si scopre autonoma rispetto a quella natura di cui prima era soltanto specchio. La pittura, così ripiegata su se stessa, si svincola sempre più da qualsiasi contenuto per esprimere se stessa nella sua propria purezza; per cui in ultimo essa finisce per ridursi alla esibizione puramente formale, autoreferenziale, vuota di contenuto di quelli che sono i suoi mezzi espressivi. E se è vero che il telos dell’arte pittorica di tutti i tempi è quello di tendere ad esprimere con sempre maggior purezza la pittura in se stessa ovvero la pittura nella sua autonomia formale ( come crede Greenberg ); allora quello che non solo in senso convenzionale si chiama “espressionismo astratto” rappresenta il raggiungimento di quella meta a cui tutta la pittura ha teso nel corso della sua lunga storia.

Ora tutto ciò ( e non è poco ) viene messo radicalmente in questione da Emiliano Yuri Paolini, il quale in questo senso può essere ravvicinato a figure di grandi artisti, che prima di lui hanno tentato questa messa in mora del modernismo così come lo ha concepito Greenberg – ci riferiamo, per esempio, a Pollock e Rauschenberg. In Paolini prima che la tela venga appesa ad un muro essa viene distesa a terra ed attraversata. Alla dimensione verticale si sostituisce la dimensione orizzontale; alla superficie-supporto si sostituisce quello che potremmo chiamare un piano da lavoro ( quello che acutamente Leo Steinberg ha chiamato “pianale” ); al riquadro chiuso si sostituisce lo spazio aperto; alle forme e ai colori si sostituisce il gesto; alla contemplazione distaccata si sostituisce un luogo abitabile ed attraversabile; alla frontalità della rappresentazione si sostituiscono le molte vie d’accesso ad un quadro in cui si sta dentro od intorno, non mai di fronte.

L’artista con la sua operazione ( mi riferisco a quella che abbiamo chiamato ‘fase 2’ della costruzione dell’opera ) spezza quella presunta continuità  – che caratterizza come suo proprio telos ( è la nota tesi di Greenberg[1] ) l’intera storia dell’arte pittorica – introducendo un forte elemento di discontinuità, mettendo in discussione così la presunta autonomia della pittura in tal modo aprendola ad un non più rinviabile dialogo col suo altro. Ciò non significa necessariamente un ritorno dell’arte alla realtà ( sociale, esistenziale … ) dopo il suo spettrale ripiegamento su se stessa che l’ha portata nel vicolo cieco della sua autoreferenzialità. Qui non si sta affermando la necessità di un ( più o meno augurabile ) ritorno all’ordine. Infatti il gesto di Paolini non vuole sostituire ad un’arte autoreferenziale un’arte etero-referenziale, bensì vuole articolare insieme queste ultime così cogliendo nell’opera d’arte stessa la dialettica interna tra l’arte ed il suo altro – anche per questo alla fine l’artista non rinuncia ad affiggere la ‘sua’ tela alla parete. Ora si comprende meglio perché nel titolo si parli di un Quasi Quadro.

Ma il titolo recita: Qubo Quasi Quadro – che dire di questo Qubo per giunta scritto in maniera volutamente[2] errata? La presenza di questo volontario errore di ortografia (la ‘Q’ al posto della ‘C’) ci deve mettere sull’avviso: forse in quest’opera non si ha a che fare con un solido geometrico che si sviluppa in uno spazio tridimensionale. Infatti questo cubo non è una entità geometrica costruibile nello spazio se non ad una prima apparenza. Più che dispiegarsi nello spazio esso è chiuso su se stesso in modo da andare a costituire una specie di grembo, il quale per questo non può assolutamente essere considerato come uno spazio chiuso costruibile geometricamente e misurabile. Sarebbe, quindi, un errore considerare questo cubo difettato come una figura geometrica – esso nella sua chiusura si prepara ad accogliere come un grembo i bambini che lo abiteranno. Paolini chiama questo grembo: “casa” o anche “scrigno” – è evidente che qui è in gioco un’intimità ed un segreto non misurabili, né rappresentabili ( non solo nello spazio ). Per tale ordine di ragioni sarebbe un errore considerare questo grembo come un semplice cubo. Se parliamo di “grembo” è soprattutto perché esso accoglierà nella sua intimità dei bambini che giocandovi liberamente ed innocentemente lasceranno di sé solo delle tracce colorate. Ciò innanzitutto prima significa che questi bambini non sono né rappresentati, né rappresentabili dall’opera. Abbiamo solo una traccia del loro passaggio.

Oggi viviamo in una società dove non ci si fa problemi a rappresentare in tutti i modi possibili quella che si chiama “infanzia” – basti pensare all’uso che dei bambini viene fatto dalla pubblicità! Questa proliferazione di ‘immagini dell’infanzia’ è espressione di una vera e propria bambino-latria che spesso rischia di scivolare in una vera e varia forma di perversione come se la pedofilia fosse solo un’altra faccia ( quella oscura ) di questa oscena esaltazione della bambinità che caratterizza la nostra società dei consumi. Se faccio ex abrupto questo riferimento alla pedofilia è anche perché l’opera qui in questione nasce da una conversazione di Emiliano Yuri Paolini con la sua amica Sabrina Orrico ( anche lei un’artista ) durante la quale ci si interrogava sul come un’opera d’arte potesse – confidando solo sui suoi mezzi espressivi – denunciare in qualche modo la piaga della pedofilia. Ora questa è stata l’occasione che ha portato Paolini ad ideare quest’opera in cui – sia ben chiaro – non c’è nessuna esplicita denuncia o condanna della pedofilia non essendo questo il compito primario di un’opera d’arte ( a questo punto meglio una raccolta di firme o la proposta di una legge in parlamento ). Eppure la pedofilia in qualche modo c’entra perché questa perversione – come dicevamo – è collegata ( come il rovescio col dritto ) a quella che abbiamo chiamato bambino-latria dei nostri tempi, la quale si esprime proprio nella proliferazione progressiva di rappresentazioni dell’infanzia come se l’infanzia fosse direttamente e semplicemente rappresentabile. Infatti in questa perversione, anche se in maniera morbosa, non solo ci facciamo una rappresentazione dell’infanzia, ma ce la facciamo per poi poterla togliere di mezzo e così raggiungere ( concupire e possedere ) quella infanzia la cui sola rappresentazione non può bastare alla soddisfazione della nostra perversa pulsione. Di contro Paolini afferma in maniera forte e risoluta proprio la fondamentale irrappresentabilità dell’infanzia. Nella sua opera non troviamo la scandalosa e compiaciuta ( quasi morbosa ) ostentazione dell’infanzia violata che, invece, possiamo ritrovare nei tristemente noti bambini impiccati ad un albero da Maurizio Cattelan in Piazza XXIV Maggio a Milano nel 2004; o che pure ritroviamo nelle shockanti foto di Erik Ravelo che appunto fotografa bambini in croce per la sua ultima campagna di comunicazione sociale in difesa dell’infanzia. Egli fotografa delle croci umane ( rappresentate da quelli che sono gli odierni ‘carnefici di bambini’, i quali nella foto ci danno le spalle ) su cui ogni piccola vittima è crocifissa[3]. Certo, in quest’opera di Paolini, alla fine c’è l’ostensione di una croce, ma sulla croce non sta crocifisso un bambino! Sia l’istallazione di Cattelan che le fotografie di Ravelo si richiamano al mistero della croce ovvero al mistero dell’innocente crocifisso di cui Gesù Cristo è figura in modo esemplare. Per quanto riguarda Ravelo mi sembra degno di nota il fatto che le sue shockanti foto facciano comunque parte di una campagna pubblicitaria. Questo fatto da solo basta a costituire una ulteriore violazione di quella infanzia la cui violazione si sarebbe voluto denunciare – ambiguità della pubblicità!

Per quanto riguarda Maurizio Cattelan, invece, il discorso si fa più serio. I bambini – ovvero i rappresentanti per antonomasia della innocenza ( concezione un po’ stereotipata a cui si richiama l’artista ) – sono tre. Questo particolare ci richiama alla mente la terribile scena del Golgota: su questa altura appena fuori delle mura di Gerusalemme erano crocifissi insieme a Cristo i due ladroni! Eppure non ci possiamo fermare qui se vogliamo cogliere fino in fondo l’appello che c’è dentro la provocazione di Cattelan. Infatti noi tutti siamo stati ( appunto ) bambini e da bambini più o meno tutti hanno letto o si sono sentiti leggere “Le avventure di Pinocchio” di Collodi. Ebbene a un certo punto della storia Pinocchio viene impiccato su di un albero dagli assassini che volevano sottrargli le sue monete d’oro[4]. Quindi quelli impiccati all’albero da Cattelan non sono bambini, ma burattini come Pinocchio! Allora si tratta di una finzione, ma un po’ speciale, perché è una finzione che dal suo stesso interno si rivela come finzione; e riesce a farlo citando un’altra finzione. Allora il dramma della crocifissione dell’infanzia, dell’innocenza, ci si rivela come qualcosa non di tragico, bensì di tragicomico. Ma, allora, dobbiamo necessariamente figurarci che sulla faccia dell’artista, come sulla faccia del cinico e smagato spettatore, si disegni il sottile ed ironico ( se non addirittura sarcastico ) ghigno del nichilista? Non necessariamente. Anzi, il rigore dell’operazione tentata da Cattelan non sta solo e tanto nel fatto di denunciare l’infanzia abusata attraverso l’immagine della innocenza crocifissa; ma sta proprio nel fatto di denunciare nello stesso tempo il carattere di finzione della sua stessa provocazione; quest’ultima è sempre una provocazione che proviene da ed è provocata attraverso una finzione, finzione che nel momento stesso in cui denuncia il male denuncia se stessa per quella finzione che è – e fa ciò non in maniera livida contrapponendo verità a menzogna, bensì rinviando ad una finzione: ovvero rievocando quel racconto d’infanzia che sono “Le avventure di Pinocchio” scritte da Collodi. Quindi abbiamo due denunce che si attraversano reciprocamente e non possono stare l’una senza l’altra: la denuncia della infanzia violata, della innocenza crocifissa; e la denuncia della finzione ( l’opera dell’artista ) come finzione. È questo il momento in cui cominciamo a capire che il contrario di ‘finzione’ non è ‘verità’, bensì menzogna (come amava dire Picasso). Allora l’ultima parola che provoca questa istallazione di Cattelan non è lasciata a Ivan Karamazov, colui che di fronte allo scandalo della sofferenza inutile decide di restituire il suo biglietto di ingresso in paradiso[5]. In Cattelan, infatti, l’infanzia non è solo quella crocifissa, ma è anche quella dei racconti d’infanzia, è anche l’innocenza dei ragazzi che per gioco inventano mille peripezie; è l’infanzia scapestrata di Pinocchio che non termina le sue avventure impiccato su una quercia; anzi, quello è solo un episodio. Tutto questo significa anche che, se l’infanzia non può e non deve essere rappresentata; può benissimo, anzi, deve essere raccontata.

Ora Paolini tiene fermo ( in modo molto più risoluto di Cattelan che, anzi, ad una prima impressione sembra fare proprio l’opposto ) a quella che abbiamo chiamato irrappresentabilità dell’infanzia – essa, cioè la nostra infanzia, può solo esserci stata raccontata. Infatti, al tempo (immemorabile) della ‘nostra’ ( e quindi anche ‘non nostra’ ) infanzia non c’eravamo propriamente parlando[6] come soggetti adulti dotati del nostro apparato di facoltà ampiamente sviluppato ed esercitato e quindi capaci per questo di farci delle rappresentazioni … anche della ‘nostra’ infanzia. Per questo la ‘nostra’ infanzia non può essere da noi rappresentata a noi stessi; può solo esserci raccontata. Noi non abbiamo un accesso diretto alla nostra infanzia per cui non ce la possiamo mettere di fronte così distanziandocene per poi poterla descrivere nei suoi tratti. Ecco perché l’infanzia non solo non può, ma anche non deve essere ridotta a rappresentazione. Essa è l’irrappresentabile stesso: ma non nel senso di un oltre o di un al di là della rappresentazione; anzi, l’infanzia è la carne stessa della rappresentazione – è per questo che la rappresentazione non può rappresentarla anche se … anche se ne possiamo rinvenire le tracce e con ciò testimoniare di questo qualcosa di irrappresentabile colto proprio nella sua irrappresentabilità – non solo la nostra infanzia, ma addirittura l’infanzia della rappresentazione!

Non stupisca questo ulteriore rovesciamento: Infatti l’operazione tentata da Paolini è un tentativo di recuperare e farci sentire la rappresentazione nella sua infanzia, nel suo nascere. Naturalmente non si tratta soltanto di ricostruire quei processi psicologici e fisiologici per cui si genera nella immaginazione ( nostra come dell’artista ) da una concretissima immagine, ricca di determinazioni e di aspetti anche confusi, una rappresentazione ( non solo artistica ) più chiara e precisa. Eppure una tale immagine nella sua pienezza di determinazioni, concreta, ricca di aspetti, flagrante è veramente la rappresentazione allo statu nascendi. Questa immagine così sorgiva ( per questo aperta, slabbrata e molto indeterminata anche se nel senso della pienezza ) veramente è l’infanzia di quella che alla fine del processo-procedimento artistico ( che è anche un processo-procedimento linguistico ) sarà la rappresentazione compiuta. Proprio per questo tale immagine – almeno per quanto riguarda il nostro discorso che verte sull’arte – non può essere considerata alla stregua di uno stato mentale rilevabile, misurabile e descrivibile quantitativamente da una qualsivoglia psicologia empirica o sperimentale. Questa immagine concreta (e proprio per questo indeterminata) non è qualcosa che deve essere gettato via una volta che l’artista nel suo operare (non in tutto e per tutto retto da una qualche specie di intenzionalità) sia giunto ad elaborare una rappresentazione conchiusa e perfetta tutta raccolta nella sua assolutezza e compiutezza formale. Anzi, i grandi artisti – basti qui citare il nome di Paul Klee – hanno proprio tentato di regredire dalla rappresentazione alla sua infanzia facendoci sentire ( senza rappresentare se non portando la rappresentazione ai suoi limiti ) l’origine e la provenienza da cui la rappresentazione (eminentemente quella) artistica proviene, origina, scaturisce. Questa è ciò che Klee chiamava “fertilità” dell’opera. Le grandi opere d’arte di questo tipo ( o meglio: che mettono in opera e ci fanno sentire questa infanzia della rappresentazione ) più che rappresentare questo o quello, rendono visibile ( ancora una volta Klee ) questa sorgività. Non rappresentano solo un albero, ma insieme all’albero cercano di risalire alle radici che a rigore rappresentabili non sono.

Una tale arte, l’arte che ci fa sentire l’infanzia della rappresentazione o la rappresentazione nella sua infanzia acquista con ciò un carattere epifanico. Il riferimento alla festa della Epifania di Nostro Signore Gesù Cristo non è casuale; anzi, questa icona del Nuovo Testamento spesso viene ripresa da Paolini come immagine che ben esprime il carattere di dono che ha l’opera d’arte così come lui la concepisce ( si tratta di un doppio dono: dono di Gesù all’umanità e dono dell’umanità a Gesù espresso dalla figura dei Re Magi ). Tuttavia, se torniamo all’operazione messa in atto da Paolini, la prima cosa che ci colpisce è che la gigantesca ( quasi monumentale ) tela appesa al muro è una croce. Ora la croce non è propriamente una epifania; forse la potremmo definire una epifania rovesciata. Il Cristo salendo sulla croce si ri-vela come il vero Dio proprio per il fatto stesso di non essere stato riconosciuto come Dio. Il non riconoscimento del crocifisso come Dio è indispensabile perché l’uomo ( pur ) davanti a Dio si possa a lui rapportare in modo libero. Quindi a proposito della croce non possiamo a rigore parlare di epifania[7]. Non v’è una dazione di senso; davanti alla croce non assistiamo ad una manifestazione di senso come all’epifania; si assiste, invece, ad una sottrazione di senso tanto radicale che il corpo del Cristo crocifisso non è nemmeno rappresentato nel Quasi Quadro che conclude l’opera. Abbiamo soltanto la rappresentazione di una croce spoglia, nuda, vuota – sporcata solo da alcune macchie di colore dove ancora sono riconoscibili le impronte dei piedi che l’hanno calpestata. Altro che epifania del divino! Eppure proprio tale croce è il vessillo della vittoria: la vittoria sul sacro, la vittoria sul potere numinoso del mito. E questa vittoria si verifica perché a salire sulla croce è stato non un peccatore, ma l’innocente. Per questo l’innocente non è rappresentato appeso alla croce a differenza di quanto accade nell’istallazione di Maurizio Cattelan o nelle foto shockanti di Erik Ravelo – ecco un altro modo di ri-velare l’innocenza e il suo dramma tenendo ferma, però, la sua doverosa irrappresentabilità[8].

Allora sotto la croce non siamo più gli spettatori di una epifania; bensì siamo testimoni di un’assenza pure massimamente presente: la croce è spoglia. «Ciò che resta – dice Hölderlin – lo fondano i poeti». Ecco un ulteriore aspetto di questa operazione. Non possiamo fare a meno di sottolineare il carattere insieme scatologico ed escatologico di ciò che resta: una croce spoglia, una croce sporca. Le ultime cose in tutta la loro povertà? Non solo. Cerchiamo in ultimo di approfondire il senso scatologico di questo Qubo quasi Quadro visto che del suo significato escatologico qualcosa abbiamo detto – infatti è la croce di Cristo ad inaugurare gli ultimi tempi.

Si è detto che i bambini variamente colorati “sporcano” la tela ed è anche palese che la tela così sporcata di colore dai bambini viene aperta, calpestata e alla fine ostesa davanti a tutti. Basta ciò per capire che questa tela somiglia molto ad un grande pannolino per bambini. Essa viene aperta così che si possa vedere il prodotto ( le feci del bambino ). Questo enorme pannolino sporco viene poi calpestato. Tale gesto solo all’apparenza può far pensare ad un rifiuto, ad una negazione delle feci come se la merda fosse il simbolo stesso di ciò che è umanamente inaccettabile[9]. Al contrario qui la merda non è tabuizzata, non è brutta e cattiva, non è “sporca” – qui al limite ci si può giocare, essa può essere attraversata e diventare addirittura un utile elemento con cui farci qualcosa. La nostra ipotesi è confermata dalla ostensione della tela-pannolino. Come il bimbo che appena fatta la cacca corre fiero da sua madre per consegnarle il suo speciale dono: ‘Mamma, guarda cosa ho fatto!’.

Davanti a questa tela sporca e calpestata proviamo prima un vissuto di vergogna[10], la vergogna di essere uomini. Ma insieme e nello stesso tempo riconosciamo in questa tela ostesa[11] un paradossale dono: un dono che si è donato a tal punto da essere abbandonato totalmente, a tal punto da abbandonarsi totalmente. È davanti a questo dono abbandonato che la croce ridiventa per noi segno certo di speranza.

 

Stefano Valente

[1] Per approfondire tutta questa importante tematica vedi: Alle origini dell’opera d’arte contemporanea, a cura di G. Di Giacomo e C. Zamdianchi; con Testi di Fry, Schapiro, Benjamin, Greenberg, Steinberg, Danto, Krauss, Adorno; Laterza, Roma-Bari, 2008.

[2] Qui è solo il caso di ricordare come in ogni opera d’arte sia in gioco una strana miscela di elementi intenzionali e di elementi in-intenzionali ( quello che Duchamp chiamava ‘coefficiente estetico’ ) – questione che spesso è in gioco e sulla quale spesso gioca lo stesso Paolini nelle sue ‘opere’ ( vedi, per esempio: “OPS! – opera per i 150 anni dell’unità d’Italia” ).

[3] Questo è l’ultimo progetto di E. Ravelo, artista cubano, classe 1978, che da anni collabora con Fabrica, il centro di ricerca per la comunicazione sociale del gruppo Benetton. Vedi: http://wwwfanpage.it/bambini-crocifissi-foto-shock-ma-il-fine-giustifica-i-mezzi/.

[4] Stiamo facendo riferimento al capitolo XV che recita: “Gli assassini inseguono Pinocchio; e, dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo della Quercia grande”. L’episodio sta a pag. 57 di: Collodi, “Le avventure di Pinocchio – storia di un burattino”, introduzione di Pietro Citati, con le illustrazioni di Enrico Mazzanti, Milano, Biblioteca universale Rizzoli, 1949, quinta edizione 1988.

[5] Stiamo naturalmente facendo riferimento al celebre episodio intitolato “Ribellione” che nel romanzo di Dostoevskij, “I fratelli Karamazov”, subito  precede la celebre “La leggenda del grande inquisitore” raccontata sempre da Ivan al fratello Alioscia.

[6] A tal proposito Jakobson scrive: «Ciò risulta in modo evidente nei preamboli delle fiabe di vari popoli: tale è, per esempio, l’esordio abituale dei narratori maiorchini ‘Era e non era’», in R.O. Jakobson, Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Milano, 1996, pp. 181-218.

[7] Anche se la croce a cui era destinato il bambino Gesù era pur indicata in maniera simbolica dal sacchetto di mirra ricevuto in dono dai Re Magi, che è un unguento usato in oriente per imbalsamare i defunti.

[8] Infatti è proprio colui che vuole farsi rappresentazioni dell’innocenza che tale innocenza perde proprio nel momento in cui pur crede di essere riuscito a rappresentarsela.

 

 

[9] Così è, ad esempio, per Milan Kundera nel suo “L’insostenibile leggerezza dell’essere” ( edizioni Adelphi, Milano, 1984 ) – lì Kundera considera il Kitsch come ciò che elimina dal proprio campo visivo tutto ciò che nell’esistenza umana è essenzialmente inaccettabile. «Il Kitsch è la negazione assoluta della merda».

[10] In psicoanalisi di solito il vissuto di ‘vergogna’ è collegato più propriamente alla fase anale a differenza del vissuto di ‘senso di colpa’ che è invece collegato più direttamente a quelle che sono le dinamiche di castrazione. Naturalmente questa è una differenza di principio e non necessariamente di fatto.

[11] Il richiamo alla sacra sindone qui può essere solo sottaciuto, ma meriterebbe comunque di essere sviluppato.