Il male tra ignoranza,malvagità, banalità e debolezza.

Peccato originale e cacciata dal Paradiso terrestre – Michelangelo

 

Aumenta sempre di più, nel nostro Paese, l’uso di sostanze tra i ragazzini di dodici e tredici anni. L’abbassamento dell’età del consumo riguarda in particolare le droghe pesanti, come cocaina ed eroina. Questo, soprattutto, a causa delle minidosi presenti sul mercato a prezzi accessibili: un grammo di coca, che nel 2004 si comprava per 40 euro, oggi ne costa 10-15. Inoltre crescono molto i mix di sostanze […]. E aumentano i giovanissimi dipendenti dalla cocaina: hanno dai sedici anni in su.”
Questo uno stralcio di articolo pubblicato il 9 luglio 2007 sul “Corriere della Sera”. Queste notizie danno l’opportunità al lettore di porsi un quesito: l’uomo sceglie o cede a un comportamento che danneggia se stesso e gli altri?
Insomma, l’uomo è colpevole oppure semplicemente ignora?
Qualora il tossicodipendente ignori – e in tal caso la questione riguarderebbe la conoscenza – egli non sarebbe sufficientemente informato circa la gravità del suo comportamento; mentre se il tossicodipendente cede alla droga – e in quest’altro caso la questione riguarderebbe la volontà – è consapevole della gravità del suo comportamento, ma non può più smettere per via della dipendenza che lo porta costantemente a scegliere la droga stessa.
In che cosa allora consiste il male? Tornano in aiuto due antichi filosofi della grecità:
Socrate e Platone.
Socrate, vissuto tra 470 e 399 a.C. , fa affidamento sulla conoscenza e sull’ignoranza del male: insomma conoscere il male permette di evitarlo. Qualora il male venga ignorato, l’uomo non potrebbe considerarlo tale, e lo metterebbe in pratica come se fosse bene. Per Socrate, “nessuno fa il male volontariamente”: egli affronta la questione della subordinazione della volontà alla conoscenza, dalla quale paradossalmente scaturisce l’involontarietà del male. Questo è il cosiddetto intellettualismo etico di Socrate: il bene, una volta conosciuto, muove irresistibilmente la volontà dell’uomo, perché esso attrae.
Se il piacere è bene, nessuno, sapendo o credendo che altre possibili azioni siano migliori di quelle che compie, fa le peggiori, mentre potrebbe compiere quelle migliori […] è contrario all’umana natura ricercare ciò che si ritiene male invece del bene” – questa una delle celebri affermazioni di Socrate, riportata per iscritto dal suo discepolo più illustre, Platone, nel “Protagora”.

Scuola di Atene – Raffaello Sanzio

Platone, vissuto tra 428 e 348 a.C. , si rifà al suo modello dualistico, che vede una netta separazione, a livello ontologico, tra le idee presenti nell’iperuranio e le cose presenti nella realtà immanente, ossia in quella terrestre.
Egli dunque ritiene che Socrate non abbia tenuto in considerazione l’importanza della volontà: è possibile secondo lui conoscere il male e metterlo in pratica, ricavando persino piacere da esso. Accanto alla ragione albergano forze irrazionali, capaci di condizionare l’agire umano.
Nel “Fedro” Platone espone il celebre mito della biga alata: paragona l’anima a un carro alato trainato da due cavalli, uno bianco e un altro nero, e guidato da un auriga.
Il mito è imbevuto di simbolismo: l’auriga è l’incarnazione del lògos, componente razionale che ha sede nel cervello; il cavallo nero rappresenta la parte concupiscibile, che ha sede nel ventre, è principio di tutti gli impulsi corporei e si ribella alla guida della ragione; il cavallo bianco infine rappresenta la parte irascibile, che ha sede nel petto e obbedisce al volere del lògos stesso.
Il mito permette di comprendere che nell’anima convivono forze che sono discordanti, e che è necessario temperare quelli che sono poi gli impulsi.
Il male per Platone diviene colpevole, in quanto frutto di una scelta consapevole tra due alternative. Alla scelta stessa conseguirà tra l’altro un giusto premio o una giusta punizione nell’aldilà.
Platone è allora stato lo scopritore dell’idea di libertà?  La risposta è purtroppo negativa, in quanto in tutta la filosofia pre-cristiana l’idea della libertà è incerta.
Aristotele però va oltre, e distingue tra azioni volontarie e involontarie: le prime sono compiute dal soggetto con piena consapevolezza, e non dipendono da caso e costrizione; mentre le seconde dipendono dalla socratica ignoranza o dalla costrizione.
Ma neppure questa distinzione porta alla piena idea di libertà: inizierà a parlare di “libero arbitrio”  San Tommaso dei Conti d’Aquino: l’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio, è libero di ribellarsi al suo creatore. Aristotele ritiene che si possano scegliere soltanto i mezzi, mentre la piena libertà consiste nella scelta dei fini, e solo in virtù di essa l’uomo può volere il male.
Vi è allora, nella prospettiva cristiana, un’inversione del rapporto tra volontà e ragione: il volere malvagio non deriva da un errore razionale o da un impulso irrefrenabile, ma è proprio l’offuscarsi della ragione a derivare da una volontà malvagia.
Proprio Tommaso d’Aquino introduce il concetto di colpa, deficienza di un’azione che non è stata fatta o non è stata fatta nel modo dovuto. La colpa è pertanto l’atto con cui l’uomo sceglie deliberatamente il male, e la sua introduzione da parte di Tommaso porta alla dissoluzione dell’intellettualismo socratico già contrastato dall’aristotelismo.
Honorè de Balzac, principale maestro del romanzo realista francese, vissuto nel XIX secolo tra 1799 e 1850, sostiene che ci si abitui a veder commettere il male, per poi arrivare a tollerarlo e metterlo infine in pratica, mentre Simone Adolphine Weil, filosofa, scrittrice e attivista partigiana vissuta tra 1909 e 1943, sembra sostenere l’intellettualismo etico socratico:
“Quando si compie il male, non lo si conosce, perché il male fugge la luce” – questo uno dei suoi aforismi circa il male.

Hannah Arendt in 1944. Portrait by photographer Fred Stein (1909-1967) who emigrated 1933 from Nazi Germany to France and finally to the USA.

Hannah Arendt, filosofa e scrittrice tedesca di origine ebraica vissuta tra 1906 e 1975, parla invece della banalità del male proprio in un saggio pubblicato nel 1963, “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme”:
“La triste verità è che molto del male viene compiuto da persone che non si decidono mai ad essere buone o cattive” – e ancora – “ Quel che ora penso è che il male non è mai radicale, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla superficie come un fungo. Esso sfida, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male è frustrato, perché non trova nulla. Questa è la sua banalità. Solo il bene è profondo e può essere radicale.”
Ma è Friedrich Nietzsche, uno dei “filosofi della vita”, vissuto tra 1844 e 1900, che permette di ricollegare l’argomento del male alle droghe e all’alcol, e pertanto alla tossicodipendenza : il male è per tale filosofo “tutto ciò che deriva dalla debolezza”.
La principale causa per cui molti giovanissimi scelgono le droghe leggere e l’alcol, per poi provare anche qualcuna delle droghe pesanti citate dal “Corriere della Sera”, è proprio la debolezza di cui parla Nietzsche: i giovani non si sentono molto spesso accettati dalla massa, e difficile è il concetto di personalità, in quanto soltanto i più forti lo fanno proprio mettendolo in pratica; per ricevere considerazione allora essi fanno ciò che tutti arrivano a fare, proprio per gioco.
Entra pertanto in ballo la psicologia: la non accettazione è causa di tali comportamenti errati, e quando il giovane comprende la loro gravità, non può più tornare indietro, dacchè troppo tardi. Il suo corpo avrà sempre più bisogno di droghe leggere, se non di quelle pesanti, e il ragazzo continuerà ad essere platonicamente trascinato verso ciò che è male.
Dalla debolezza allora deriva il male in tutte le sue sfaccettature: esso si cela, si espande continuando a celarsi, e si rivela al momento opportuno, trascinando chi lo compie.

Davide Cerrato