Il grave problema della mobilità sociale per i giovani italiani

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Il tema su cui mi preme riflettere con voi lettori questa volta, riguarda la problematica della società sociale, in particolare facendo riferimento alla situazione Italiana.

Come forse già saprete, per mobilità sociale viene inteso il passaggio di un individuo da una classe, strato, ceto sociale, all’altro.

Dalla presa in esame del Rapporto Istat 2012 si evince un peggioramento delle opportunità di riuscita sociale ed occupazionale dei giovani.

Se per tutto il XX secolo i dati relativi alla mobilità sono risultati essere piuttosto elevati,  accompagnando un periodo di crescita economica, oggi è praticamente assente la possibilità raggiungere posizioni più elevate di quelle del padre.

I posti  disponibili nelle posizioni intermedie e sommitali della stratificazione occupazionale sono tutti occupati da adulti ed anziani, cosicché molti giovani sono costretti ad accontentarsi, sempre ammesso che riescano a trovare un lavoro, di essere collocati nelle posizioni meno appetibili. Tale situazione ha portato, oggi come non mai, molti giovani alla decisione di trasferirsi all’estero.

Secondo il mio punto di vista, se riteniamo essere giusta una società basata sulla meritocrazia, ove per essa intendiamo che “il posto che ciascuno occupa nella società dipende solo e soltanto dalle sue competenze misurate accuratamente dai titoli scolastici e dalle qualifiche”, citando Carlo Barone in una delle sue opere più note “Le trappole della meritocrazia”  sarebbe il caso di adottare politiche in grado di eliminare il nepotismo, che, purtroppo, regna sovrano.

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Recenti studi a tale riguardo hanno poi dimostrato che a parità di istruzione, genere, età e stato civile, le probabilità di entrare nella Pubblica Amministrazione aumenta del 44% per gli individui il cui padre lavora nel settore pubblico.

Se  è vero che la probabilità di riuscire ad entrare aumenta con l’aumentare del livello di istruzione e quindi del titolo di studio, un diplomato il cui padre lavora nel settore pubblico ha più chances di ottenere il posto di un laureato il cui padre lavori nel settore privato. Il figlio di un dipendente pubblico, insomma, non ha conseguenze troppo negative per esiti scolastici mediocri.

Mi preme sottolineare, come, a causa dell’adozione di queste politiche, a rimetterci sono non solo le  organizzazioni, “costrette” ad impiegare lavoratori meno competenti, ma la società tutta.

Di questa tematica, affatto nuova, si era già occupato anni addietro Jung, quando in “The Rise of Meritocracy”,  teneva a sottolineare “qualunque padre vuole trasferire I propri averi al figlio piuttosto che ad estranei o allo Stato; il figlio è parte di lui e donargli ciò che possiede è come assicurarsi una sorta di immortalità”.

Sostenere il nepotismo, nonché l’ereditarietà sociale, porta con sé non una, ma numerose spiacevole conseguenze:  i giovani tendono ad essere sempre più svogliati e meno motivati, dall’altra, sarebbe impossibile non considerare  quanto il lavoro occupi un posto significativo nella vita degli individui, sempre ammesso che lo si abbia, in termini di tempo: svolgere un lavoro “ereditato”, ma per nulla “partecipato”, percepito come realmente proprio, ritengo possa avere conseguenze negative sulla qualità di vita degli individui.

Per ultimo, ma altrettanto fondamentale: il fatto di “ereditare” un posto, non è per nulla d’aiuto per il giovane affinché egli possa riconoscere e perseguire le proprie propensioni e predisposizioni .

Oltre ai fattori già analizzati, parlando di successo o insuccesso lavorativo, credo non si possa  non fare riferimento alla self-efficacy.

Secondo il pensiero di Hendry e Kloep, veniamo a conoscenza della quantità di self-efficacy in parte attraverso il feedback sociale, in parte attraverso l’esperienza: Osservando il nostro comportamento valutiamo le nostre prestazioni in base ai nostri standard e ai nostri obiettivi o paragonandoli alle realizzazioni degli altri, traiamo così conclusioni generalizzate. Detto in altre parole, a seconda del nostro successo o insuccesso nelle sfide che la vita ci pone, sviluppiamo delle consapevolezze riguardo a noi stessi  ed esse guideranno il nostro agire e le nostre scelte future.

Le esperienze scolastiche e formative hanno una forte influenza non solo dal punto di vista “didattico”, ma rimane fondamentale per il ragazzo sentirsi stimato, valorizzato non solo come studente, ma anche come individuo. Sarà in base a queste che il ragazzo sceglierà il proprio percorso futuro.

 

All’ingresso nel mondo del lavoro, il titolo di studio risulta essere determinante, anche troppo!  Scegliere un liceo piuttosto che un istituto professionale, ha conseguenze troppo pesanti sul nostro futuro in quanto chi viene assunto dal primo incarico in posti più prestigiosi, tende a rimanerci, mentre risulta sempre più difficile, rivalersi con il tempo.

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Siamo chiamati a prendere una decisione di tale importanza a soli 14 anni, quando, molte volte non siamo ancora pronti, o comunque, non abbiamo troppa consapevolezza di cosa realmente vogliamo, di chi siamo.

Secondo il mio modesto parere, ammesso che il nepotismo possa essere combattuto, sarebbe necessario valorizzare il ruolo della formazione continua.

Sebbene recenti  dati mostrino chiaramente come   il rischio di esclusione sociale sia concentrato sulle persone con bassi livelli di istruzione, da una parte l’Unione Europea offre sempre meno frequentemente possibilità di aggiornamento sul posto di lavoro, d’altra,  la partecipazione, soprattutto in Italia, è molto scarsa.

Considerando le ultime indagini, risalenti al 2012, gli adulti che hanno partecipato ad attività di formazione risultano essere in maggioranza uomini (54%) rispetto alle donne (49,1%). La maggior parte degli adulti impegnati in formazione si registra tra le posizioni lavorative più elevate, soprattutto per quanto riguarda dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. La partecipazione è più frequente per i laureati rispetto alle persone con licenza elementare, che sono paradossalmente quelle che più ne necessiterebbero, con differenze rilevanti tra Nord e Sud.

Tra gli individui in cerca di formazione, non si registra una prevalenza della motivazione professionale, che incide allo stesso modo rispetto ai fini personali, detto con altre parole, gli individui non vedono  nella formazione un “trampolino di lancio” che potrebbe aiutarli ad inserirsi, o reinserirsi nel mondo del lavoro. Oltre a ciò, altrettanto allarmante è stato considerare come il tasso di partecipazione alla formazione dei lavoratori cresce all’aumentare della dimensione dell’impresa.

 

Se questo tipo di formazione fosse valorizzata, potrebbe essere concessa ai giovani anzi ai lavoratori in generale, la possibilità di  “riscattarsi” una volta acquisite nuove competenze, cosa che invece, nella maggior parte dei casi, non succede.


 

Valentina Bellezza