Il grottesco non ha limiti

Appunti su di una recente mostra dell’artista Diego Petruzzi (dal 28 ottobre al 18 novembre 2017 presso la Biblioteca-Centro Culturale “Aldo Fabrizi” in via Treia 14, Roma).

 

 

Il grottesco – che dà il titolo a questa esposizione dell’ultima produzione dell’artista Diego Petruzzi –  non è semplicemente un esercizio di stile o peggio di genere (altrimenti avrebbe dei limiti ben precisi), ma è il tentativo di mettere in questione la forma e i suoi limiti in rapporto a quella che è la figura umana. I protagonisti di queste tele sono figure caricaturalmente ripiegate su se stesse che l’artista con ironia – anzi con sarcasmo – sottopone ad un’operazione di deformazione capace di aprire alla meraviglia e al sorriso. Il grottesco qui non ha limiti proprio perché consiste in una serie di operazioni che si caratterizzano per il loro debordare rispetto alla forma sia nel caso in cui si tratti di una forma estetica sia nel caso in cui si tratti di una forma logica. Potremmo dire che il grottesco è in arte ciò che il paradosso è per la logica. Il grottesco qui non ha limite perché sta sul limite, insiste sul limite, pone sotto pressione il limite non solo per volontà di sberleffo, ma perché tenta di cogliere quelle che sono le condizioni stesse del darsi della rappresentazione; condizioni che perché tali non possono essere semplicemente rappresentate se non accettando di correre il rischio di eccedere i confini della figura verso uno sfiguramento ed una deformazione che sono allo stesso tempo tragici e comici nel loro attestare l’impossibilità di fuoriuscire dalla rappresentazione. Questo tratto tragicomico e paradossale del grottesco ricercato dall’artista dà vita ad un universo alla rovescia, ad un rutilante carnevale di maschere, ad un intreccio di corpi che dal loro stesso interno si smembrano al solo fine di intrecciarsi con altri corpi. Qui l’alto si rovescia nel basso e viceversa dando luogo ad un disorientamento che si trasforma in festa. Una festa che nonostante il suo carattere dionisiaco, che le fa correre il rischio di sconfinare nel vero e proprio aorgico, resiste ad una sempre possibile dissoluzione di tipo mistico proprio grazie all’uso del sarcasmo, ovvero attraverso un’ironia seppur giocosa sempre mossa da animosità verso quell’universo conformistico fatto di figure stereotipate e vuoti simulacri propinatoci dai mass-media e dalla pubblicità. Allora in queste opere l’arte del grottesco comincia a profilarsi come un modo ancora praticabile di critica sociale che veda nell’arte non solo qualcosa di neutro se non addirittura di spettrale ed autoreferenziale. Queste opere di Petruzzi, quindi, non sono adatte ad essere appese alle pareti di un museo – in questo senso il loro richiamarsi al mondo del fumetto (ed in modo particolare ai fumetti di Jacovitti) ha un preciso significato: è ora per l’arte di abbandonare il museo e di trasgredire quelli che sono i presunti confini del cosiddetto “mondo dell’arte”.

 

STEFANO VALENTE

 

2 Risposte a “Il grottesco non ha limiti”

  1. Un artista col sentimento impeccabile della forma, ma abituato a esercitare innanzitutto l’immaginazione – tanto da dire a ogni cosa: “Lazzaro, alzati!” -, si trova come assalito da un tumulto di particolari, che chiedono tutti giustizia col furore di una folla assetata d’uguaglianza assoluta. Charles Baudelaire, nelle sue riflessioni sul Pittore della vita moderna, anticipava così, sul piano estetico, quel che sul piano medico sarebbero state, tra la fine dell’Ottocento e a cavallo tra le due guerre mondiali, la scoperta dell’inconscio e le riflessioni freudiane sul comico che, di quella scoperta ne rappresentano la più segreta intima giustizia. In quel pittore disincantato baudelairiano ogni giustizia viene a essere necessariamente violata, ogni armonia distrutta: il banale diviene enorme, ciò che è futile s’arroga la parte dell’usurpatore. E quanto più l’artista aderisce imparzialmente al particolare, tanto più cresce l’anarchia. Miope, presbite, poco importa: scompaiono comunque in lui gerarchie e dipendenze. Questo pittore del comico assoluto, questa talpa cittadina avanza col suo lanternino sulla superficie bianca e inizia, con lievi segni di matita, oppure con graffi profondi a indicare forse il luogo che gli oggetti dovrebbero occupare nello spazio. I piani principali son poi segnati con tinte diluite, con masse indistinte appena colorate, ma in seguito ritoccate e riempite via via di colori più intensi. All’ultimo stadio il contorno degli oggetti è siglato con l’inchiostro. Gli schizzi s’accatastano e si sovrappongono a decine, a centinaia forse. Poi ne sceglie alcuni che accresce più o meno di intensità, caricandone le ombre e rischiarandone a poco a poco le luci: in qualsiasi fase del suo processo ogni disegno appare compiuto in modo soddisfacente; lo si potrà pure chiamare “un abbozzo”, ma, certo, abbozzo “perfetto”. Tutti i valori vi si trovano in piena armonia; e quando l’artista si propone d’andar più a fondo, essi sono condotti sempre a procedere di pari passo verso il fine di perfezione desiderato. Genialità: più dell’istinto che dello studio diceva Baudelaire, talento misterioso del colorista, un dono che lo studio può accrescere, ma che per se stesso è incapace di creare. Al tempo stesso esprime ora il gesto e l’atteggiamento solenne o grottesco degli esseri, la loro esplosione luminosa nello spazio. I disegni sono sempre pronti con un brio e una gioia che incantano e divertono persino lui, il pittore del disincanto moderno. Così, il comico “assoluto” come “grottesco” ha costituito, prima di Freud, il punto teorico raggiunto da Baudelaire nell’esperienza della meccanicità “perturbante”, tipica della città moderna, laddove l’unica esperienza possibile del sublime è la speciale forma che il comico prende, appunto, nel grottesco. Sul piano della vita l’esperienza perturbante è l’esperienza di una meccanicità che fa paura, e non semplicemente ridere. Sul piano dell’arte è l’esperienza del grottesco, e non quella semplicemente comica: è cioè il brivido estetico come ritorno del rimosso antico nel cuore della temporalità vacua e accellerata del moderno. Tantissime cose che sarebbero perturbanti se accadessero nella vita non lo sono in arte; e viceversa: tante le possibilità nell’arte di raggiungere effetti perturbanti che mancano invece nella vita. L’esposizione Il grottesco non ha limiti di Diego Petruzzi fornisce una prova di questa mancanza. Il perturbante si può dare solo là dove l’arte è capace di creare quel medesimo spazio della familiarità entro il quale ci sorprende il perturbante della vita, come sovrarealtà comica. Un riso del genere suona nelle opere di Petruzzi e non è un riso carnevalesco: nessun elemento basso e materiale che trionferebbe sopra le false pretese della soggettività; ma nemmeno sublimatorio è quel riso: l’immaginarsi cose (uomini, opere ecc.) più alte e superiori in termini di potenza, e ridere per questo. No. Qui c’è solo l’attestazione d’una differenza assoluta soggetto-natura, il prendere atto di una distanza incolmabile tra i due. Qui la caratterizzazione dei personaggi dà enfasi alle espressioni, le carica per farle assomigliare a caricature grottesche e, così, sorge l’esperienza perturbante dello sbigottimento, del confronto stupito del soggetto con se stesso. Sì, è un soggetto che ride – allora – quello dipinto da Petruzzi. L’artista ritrae impietosamente i personaggi che non potrebbero che vivere ai margini della società – anche se sono quelli di tutti i giorni -, e raffigura con crudezza in tali personaggi uomini e cose indifferentemente. Sicché un soggetto, uno spirito ride – o fa ridere -, ma di cosa esattamente? Ecco, di ciò: dei legami arcaici del soggetto con la natura, affatto sublimati, affatto disincantati: spirito che ride ancora del magico incanto dell’infanzia che scorge come residuo invincibilmente presente nei suoi stessi tentativi di distorcerne la rappresentazione. L’esperienza di questo contrasto attonito non attiene allora solo alla sfera rappresentativa, bensì è un contrasto che coinvolge la soggettività nel suo intero, sentimento compreso. Drammatica torsione del soggetto: questo avvitarsi grottesco, questo impanarsi in se stesso del Sé è ciò che mostra la vanità della sua stessa pretesa di liberazione intesa come conquista di un’autosufficienza. Il viaggio all’inferno a cui ci invitano le opere di Petruzzi ci offre l’occasione di incamminarci senza abbandonare la fede in una redenzione, in una parola ultima che ancora non è stata pronunciata dai fatti del mondo. Si tratta allora di un piacere che non ha l’intensità volgare dello scherzo. Il comico assoluto che trasuda a queste opere fornisce allo spirito la forza di mantener fermo in esso il contrasto che trova dentro di sé come un grottesco senza limiti. E qui, in una tale sospensione, e solo in essa, si può cominciare a sperare che come conseguenza venga il bello.

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