Giorgio Lecchi: I signori del Cosmo

Ci sono libri che ti aprono le ginocchia sbucciate dell’infanzia, quando scavavi buche convinto di trovare l’oro degli egizi o almeno un teschio alieno. “I signori del cosmo” è uno di quei libri. Ma senza le bugie del cinema: niente effetti speciali, solo la verità. Veri i simboli, vere le grotte, veri gli sciamani che parlavano con le stelle. Giorgio Lecchi non racconta: smonta il tempo, ti fa toccare la pietra umida dei millenni. Tomb Ridere si inchina. Indiana Jones si leva il cappello. Tu resti lì, con la bocca aperta e la polvere addosso. E non vuoi più uscirne, ti ricordi perché volevi essere un esploratore, prima che diventassimo adulti e ci dimenticassimo il suono del tamburo nelle viscere della Terra.

Questo libro è una scala scavata nell’ossidiana della notte preistorica, e Giorgio Lecchi è lì, con la torcia, che non ti spiega, ti mostra. Ti lascia inciampare su simboli antichi che sembrano disegnati da bambini e invece sono mappe stellari. Ti fa sedere accanto a un cranio — e non è horror, è casa.

È un libro che non ha paura del buio. Lo ama. Ti dice: vieni, guarda Göbekli Tepe, non è un cumulo di pietre, è un poema scolpito. Ti sussurra: senti l’eco? È archeoacustica. È il battito degli sciamani che ancora danzano nel silenzio. Lecchi scava con mani sporche di terra e occhi spalancati sul cielo. Parla di stelle come si parlerebbe di madri. Di simboli come di figli perduti. Di pietre come di cose vive.

Non c’è retorica, solo visione e dati. Ma i dati, qui, vibrano. Non sono freddi, sono ossa, sono fuoco. C’è un’intelligenza che abbraccia il mistero senza svenderlo a Netflix: nessuna teoria del complotto, solo la vertigine del reale. Quella sensazione che avevi da piccolo, quando credevi che il mondo fosse stato costruito da un popolo che sapeva più di noi. “I signori del cosmo” ti fa capire che forse non avevi torto.

È una ferita nel pensiero lineare. Un canto etrusco che ti attraversa le scapole. Dopo averlo letto, guardi le pietre diversamente. E anche le stelle. E anche te stesso. Perché l’autore non parla solo di archeologia: parla di memoria. Di cosa abbiamo sepolto per sentirci moderni. E della necessità, oggi, di ritornare — non indietro, ma dentro.

 

Un libro da leggere in silenzio. Col cuore aperto. E un pizzico di polvere negli occhi.

 

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