DIARIO DEL TEMPO: L’EPOPEA QUOTIDIANA. PRIMA PARTE IN DUE ATTI.

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Scritto e diretto da Lucia Calamaro con Federica Santoro, Roberto Rustioni, Lucia Calamaro – presso il Teatro India il 19 ottobre 2014 (Roma).

La storia (ma della storia non c’è traccia, essa è quantomeno sospesa, bloccata su di un presente assente dove viene meno sia la memoria del passato – i ricordi; che l’anticipazione del futuro – i progetti) racconta (ma qui non c’è racconto, né prima, né poi, né inizio, né fine, né uno svolgimento qualsiasi, solo un continuum che scorre anonimo ed indifferenziato senza soluzione di continuità) gli incontri (ma ognuno resta chiuso nella sua bolla così da rendere qualsiasi tipo di incontro impossibile) di tre inquilini dello stesso stabile tutti e tre a vario titolo disoccupati (la prima è una disoccupata cronica, il secondo è un impiegato obbligato al part-time, la terza è una insegnante di ginnastica a vocazione laico-intellettuale). Non succede nulla. I tre personaggi non tentano nemmeno più di ingannare il tempo perché ormai hanno capito che è il tempo – questo falso tempo che finge di avere un senso e che invece scorre insensato girando a vuoto su se stesso – ad aver ingannato loro: ma sembra che i tre personaggi abbiamo compreso solo troppo tardi tale inganno. Non c’è storia: assistiamo ad una specie di emorragia di tempo. É come se il tempo colasse vischioso dentro un buco nero che ingoia tutto inesorabilmente.

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Il tempo non sembra più capace di essere quell’orizzonte coscienziale capace di riabbracciare in sé passato, presente e futuro dando così un senso alle nostre esistenze. É un tempo imploso per cui la coscienza ha collassato su se stessa; l’unica forma possibile di racconto, quindi, è quella di un continuo ed insensato flusso di coscienza dove il futuro scivola senza resistenza di sorta nel passato passando per il presente il quale si dà semplicemente come questo scivolare stesso senza consistenza né forma. Simbolo di tutto questo è il tapis roulant su cui si esercita in una corsa vana e senza scopo una dei tre disoccupati che, infatti, non corre per restare in forma o per partecipare ad una maratona: così il suo atletismo (come l’atletismo richiesto anche agli altri suoi compagni di sventura) diventa la caricatura dello sforzo fisico finalizzato a raggiungere una meta. Un atletismo (la corsa, le flessioni, gli esercizi yoga) che serve solo da occasione per poter detestare una volta di più l’attività non solo fisica – e qui risuona la beckettiana Winnies che in ‘Giorni felici’ esclama: “Che dannazione la mobilità!!”. Infatti, se il flusso di coscienza che la recitazione di questi attori mima fa pensare subito all’Ulisse di Joyce, la parodia dell’attesa (di un posto di lavoro? Di un qualche senso che possa riscattare queste esistenze a perdere), la completa assenza di dramma, la insensatezza dello scorrere del tempo ricorda appunto certe atmosfere beckettiane. Sono personaggi senza memoria e senza speranze che si limitano soltanto a finire la fine … eppure la regista che è anche l’autrice del testo messo in scena tende poi a psicologizzare il tutto – non nel primo atto; moltissimo nel secondo. Ed è proprio nel secondo atto che l’ingresso in scena della supplente di ginnastica con velleità intellettuali – evidente alter-ego dell’autrice (che pure ha il merito di aver ben scritto questo testo) – rompe l’incanto (ma sarebbe meglio parlare di incubo) portando in qualche modo in scena il punto di vista dell’autrice e in tal modo non facendo altro che psicologizzare il tutto – non a caso il riferimento a Lacan diventa addirittura esplicito.
Il rimuginare dell’alter-ego dell’autrice, infatti, è ben diverso dal rimuginare degli altri due personaggi: in questi ultimi è in gioco quello che abbiamo chiamato flusso di coscienza di joyceana memoria; mentre quello dell’autrice è un vero e proprio monologo interiore metafisico tra l’altro di quart’ordine che vuole giustificarsi attraverso un vago riferimento ancora una volta a Lacan, questa volta evocato come grande filosofo e non semplicemente come fine psicoanalista.

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Questo riferimento a Lacan – come soggetto supposto sapere (avrebbe detto lui stesso) – fa di lui la caricatura di un Dio capace non si sa come di garantire il senso dell’esistenza di questi disoccupati, di garantire il senso del nonsenso (di queste contraddizioni grottesche l’autrice non si rende nemmeno conto). Citare Lacan quasi a caso ostentando la propria incapacità a capirlo significa chiamarlo in ballo come un’autorità indiscutibile e proprio per questo non messa in questione. Il suo solo nome, un riferimento anche generico ai sui scritti fa di lui il garante di una sensatezza dell’insensatezza. Il riferimento sempre più insistito a Lacan assume una funzione vagamente consolatoria come se la filosofia avesse il potere o il dovere di risarcirci dal nonsenso della vita – prendiamola con filosofia! Sembra dirci l’autrice. La sua ironia è quell’ironia che viene con la vecchiaia e quindi è un’ironia stanca, tutta centrata su di un soggetto romanticamente concepito incapace per questo di uscire dal suo solipsismo; infatti più che ad un dramma con più parti in commedia assistiamo – questa troppo spesso è stata la mia impressione – ad un unico monologo interiore cripto-metafisico che ha anche il difetto di ricomporre quell’orizzonte coscienziale di tempo che nel primo atto si era riusciti effettivamente a sospendere se non addirittura a far implodere. Nel secondo atto i personaggi, che nel primo sembravano così autenticamente inautentici, ritrovano una psicologia, ma una psicologia non per loro, bensì per noi – questo avviene perché il punto di vista dell’autrice entrando in scena non si confonde con quello degli altri personaggi, ma resta rispetto ad essi sopraelevato: lei è la coscienza dello spettacolo che entrando in scena come tale trasforma il palcoscenico nello spettacolo della coscienza! Molte delle intuizioni iniziali (mi riferisco al primo atto) si perdono e la ‘cosa’ diventa subito meno interessante.
Un’ultima considerazione. Quello che più mi è dispiaciuto è la somiglianza di questi personaggi – che erano più la caricatura che il ritratto realistico di ‘disoccupati cronici’ – all’ultimo uomo di cui parlava Nietzsche. Di fronte al nonsenso che in questo spettacolo sta sempre lì lì per essere nominato, che sta sempre lì lì per essere rappresentato, così sfiorando senza perizia una retorica di stampo esistenzialistico; di fronte al nonsenso pur tuttavia i personaggi reagiscono. Lo spettacolo a volte sembra somigliare ad una specie di esperimento scientifico in cui dei topini bianchi chiusi in una celletta di vetro vengono stimolati con piccole iniezioni di nonsenso per poi poter meglio descrivere le loro reazioni. Essi non agiscono, ma reagiscono. Non vivono il nonsenso come occasione opportuna per liberare le loro energie migliori non più limitate dai vincoli di una società rispetto alla quale non sono nemmeno oppressi (proprio per questo a loro è preclusa la strada della rivolta, perché la società non li sfrutta più, per essa sono solo esuberi, superflui, eccedenti …). Vivono con ansia (qui non è proprio il caso di parlare di ‘angoscia’; ed infatti oggi si parla sempre più di ‘disagio’; questo perché l’angoscia è l’anticamera della beatitudine) la loro in-condizione umana. Il fatto che ormai il mare sia stato asciugato con un’enorme spugna ed il cielo sia stato cancellato da un’enorme gomma da cancellare per loro è fonte di ansia, un’ansia nascosta a se stessi attraverso mille manie e soliloqui disperati.

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In fondo alla loro tristezza c’è del risentimento che cova; un risentimento proprio contro le proprie vite inutili e superflue di cui non si stancano di fare la parodia; un risentimento contro quello stesso nonsenso che li soffoca. Sono persone inutili perché disoccupate o disoccupate perché inutili. Lo stesso intellettuale che vuole raccontare (in maniera nascostamente compiaciuta) le loro vite si rifa in tono risentito a Lacan (alla cultura che avrebbe dovuto spiegare e cambiare le cose e che non lo ha fatto e non lo fa) anche se cerca di mascherare tale risentimento con un’ironia che non ha mai la forza di diventare un sano sarcasmo. Niente sarcasmo, in questo lavoro teatrale di Lucia Calamaro, ma solo una stanca ironia che si esprime come compiacimento di sé piuttosto che come allegro rovesciamento della prospettiva con cui si guarda alle cose. I personaggi sono tutti ripiegati nichilisticamente (ma qui si tratta di un nichilismo reattivo) su se stessi; che l’orizzonte del tempo, che l’orizzonte chiuso su se stesso della coscienza stia cadendo a pezzi per loro non è l’annuncio di nuove possibilità di esistenza. Eppure non voglio accusare questi personaggi per la loro ignavia; ma li voglio guardare con uno sguardo comprensivo e forse anche vagamente assolutorio. Ciò però non significa accettare – come complici più o meno consapevoli – di rispondere all’occhietto che ci fa l’autrice come se tra quelli sulla scena e noi in platea non ci sia differenza! Non è vero che questo spettacolo parla di noi (essendo chi scrive – come la maggior parte delle persone che hanno visto lo spettacolo – appartenente alla stessa generazione dell’autrice e dei suoi personaggi); o meglio: parla di noi, ma pretende di farlo in modo univoco come se tutti noi fossimo inevitabilmente condannati alla stessa deriva. Ma questo nonsenso quotidiano dove sembriamo galleggiare immobili può essere vissuto come l’occasione per salpare per altri viaggi. Bisogna solo trovare il coraggio di chiamare le cose col proprio nome; dobbiamo imparare a chiamare la nostra tristezza (finora tenuta a bada da mille manie) non più ‘disagio’, bensì disperazione; infatti solo così dalla nostra disperata vitalità potrà nascere una speranza nuova. Ciò non può dipendere da una nostra decisione, per questo essere pronti è tutto! Allora anche la parodia dell’attesa beckettianamente messa in scena anche da questi spersi disoccupati può diventare ancora il nostro disperato modo di attendere… ma è possibile esporsi all’incrocio dei venti – dove ad ogni passo si rischia di rimanere bruciati vivi – con allegria e buon umore, con giovanile entusiasmo??!! Il papa ci invita a non lasciarci rubare la speranza. La speranza cristiana poi non si contrappone alla disperazione; anzi la disperazione è la sua pre-condizione; non ha detto l’apostolo che dobbiamo imparare a sperare contro ogni speranza!!??
Se questo spettacolo teatrale prevede una seconda parte, allora spero di assistere ad un ribaltamento, ad un cambio di segno – non mi aspetto tanto un passaggio dal nonsenso al senso; quanto un rovesciamento nel nostro modo di vivere tale nonsenso.

Stefano Valente