Quando i redattori della rivista «Eizzazione» mi hanno invitato a rispondere alla domanda riportata nel titolo di questo mio troppo breve articoletto, in un primo momento sono restato spiazzato; ma poi ho subito trovato il passaggio dal consueto «Cosa è arte?» allo sconcertante «Chi è arte?» non solo molto stimolante, ma decisivo. Naturalmente la questione è ardua. Per cominciare vorrei citare il mio professore di filosofia della religione, Marco Maria Olivetti, che in una pagina del suo fondamentale Analogia del soggetto [edito da Laterza nel 1992] afferma che: «Uno schiavo è un soggetto senza essere una persona; un’opera d’arte è una persona senza essere un soggetto». Questo mi sembra un ottimo punto di partenza e non solo perché sempre più spesso si sente parlare addirittura dei diritti umani dell’opera d’arte. Ma in che senso parliamo di un’opera d’arte come di una persona? In senso analogico – vorremmo dire. Dire ciò non solo non basta, ma può anche riuscire forviante se in conseguenza di ciò si comincia a presupporre come dati da una parte l’opera, da un’altra parte il riguardante e da un’altra parte ancora il tratto che l’entità ‘opera’ avrebbe in comune con l’entità ‘persona’ e che ci permette di formulare una similitudine (dal valore a questo punto soltanto retorico) tra l’opera e la persona. Se così fosse, il nostro parlare dell’opera d’arte come se si trattasse di una persona non avrebbe niente di filosoficamente ed epistemologicamente rilevante. Invece il meraviglioso qui sta nell’affermare che in un certo qual modo la personalità dell’opera d’arte sta proprio nel suo interpellarci e direi anche costituirci come quelle persone che siamo e dobbiamo essere. È l’opera d’arte in quanto persona che ci costituisce come quelle persone che siamo e non noi che riconosciamo nell’opera gli attributi di solito riferiti al concetto di “persona”. La personalità dell’opera in qualche modo (certo paradossale) viene prima. Questo è un altro modo per dire che la personalità di una persona non è e non deve essere ricondotta ad essenza. Qui non si vuole parlare di persona in termini essenzialistici per cui ci sarebbe una serie di tratti pertinenti (animale razionale parlante eccetera) che caratterizzerebbero l’essenza dell’essere umano. M. M. Olivetti direbbe che tale essenza non si dà, ma è sempre e soltanto immaginata. Ora non possiamo addentrarci in questa decisiva questione.
Qui vogliamo solo far notare che in qualche modo l’incontro con l’opera d’arte è decisivo perché non solo ci richiama ad essere quelle persone che dobbiamo essere, ma tali persone lo possiamo diventare solo grazie all’esperienza non della ma con l’opera d’arte. Attraverso l’opera ci raggiunge uno sguardo altro (che questo poi sia lo sguardo dell’altro è decisivo, ma ora non ce ne possiamo occupare, anche perché qui si vuole evitare di trattare questioni come quelle che hanno visto contrapporsi un’ermeneutica dell’opera ad un’ermeneutica dell’autore; inoltre solo tardi è nata l’esigenza di un’ermeneutica del fruitore) ed è questo sguardo altro che ci raggiunge non in quanto esseri umani, ma in quanto persone o meglio: siamo persone da quando siamo stati capaci di sentire su di noi questo strano sguardo che non viene da nessuna parte e che pure ci decentra aprendoci ad una relazione non conoscitiva, ma etica con l’opera. Non stiamo semplicemente dicendo che “l’opera ti guarda”. Il “sentire” qui in questione non è un contraddittorio sentirsi-oggetto del soggetto che guardando si scopre guardato. Non sono gli occhi della testa di Medusa, dipinti da Caravaggio, che ci sentiamo addosso come occhi che ci pietrificano – ciò significherebbe pensare ancora una volta a quella contraddittoria esperienza di sentirci caduti dentro il campo visivo dell’altro. Quando, invece, parliamo di questo sguardo altro parliamo di uno sguardo che si è sganciato dall’occhio e che siamo noi a poter restituire all’opera una volta colto dell’opera lo sguardo.