Arte e Sacro. Cosa può imparare l’arte contemporanea dalla spiritualità delle icone russe

Alcune considerazioni sul rapporto arte e sacro sull’occasione della mostra del pittore Bruno Lanzalone intitolata: “Roma. Momenti… balenii di colori”, dal 3 al 17 gennaio 2015 presso il centro culturale Gabriella Ferri (Roma). Relazione tenuta in occasione del finissage della mostra.

Dormizione di Maria
Dormizione di Maria

Da sempre più parti si sente dire che viviamo nella ‘società delle immagini’ eppure siamo sempre meno in grado di avere con questo flusso di immagini un rapporto critico. Ecco la nostra proposta: crediamo che le icone russe possano aiutarci non solo ad avere un rapporto criticamente avvertito con le immagini, ma possano anche aiutarci a scoprire ciò che dallo stesso interno dell’immagine eccede l’immagine così da essere in grado di distinguere, quando facciamo esperienza di e con l’immagine, l’icona dall’idolo, l’immagine che si apre all’invisibile dal simulacro, cioè da un’immagine che si ripiega nichilisticamente su se stessa.
Tuttavia, leggendo questo scritto, bisogna tenere presente sullo sfondo non solo l’attuale deriva, ma anche quelli che sono i destini dell’arte nella nostra contemporaneità almeno a partire dalla pittura astratta (il riferimento è in modo particolare a Kandinskij, Klee, Mondrian, Malevic ed in secondo ordine i cosiddetti espressionisti astratti europei ed americani). La nostra tesi, infatti, può essere sintetizzata nel modo seguente: l’arte contemporanea non va pregiudizialmente considerata come una (paradossale se non proprio contraddittoria) espressione di iconoclastia; anzi dal nostro punto di vista molta della migliore arte contemporanea non fa altro che riprendere il discorso che era stato interrotto con la fine dell’arte sacra, avvenuta almeno in Occidente subito dopo la morte di Duccio Di Buoninsegna; lo stesso Giotto da questo punto di vista segna una profonda discontinuità.

Per prima cosa dobbiamo chiarire cosa intendiamo con ‘arte sacra’ per poi capire perché abbiamo scelto le icone russe come esempio esemplare ci ciò che è e dovrebbe essere qualcosa come un’arte sacra. Cominciamo col dire che ‘arte sacra’ non è ‘arte a soggetto religioso’. Innanzitutto questo significa che un’opera per il solo fatto di raffigurare un tema religioso (una deposizione oppure una crocifissione) non è per ciò stesso automaticamente un’opera d’arte sacra. Inoltre si possono dare opere che pur non raffigurando, per esempio, una scena biblica od un soggetto religioso pure ci comunicano un profondo senso del mistero. Questo significa in altri termini che qui non si vuole proporre una concezione ‘confessionale’ di arte sacra.
Il prossimo passo sarà quello di distinguere almeno in linea di principio (se non di fatto) l’arte sacra da quella che potremmo chiamare “arte idolatrica”. Per arte idolatrica intendiamo un’opera in cui tutto è ridotto a rappresentazione come se nulla eccedesse la rappresentazione o rispetto ad essa residuasse. Quest’arte idolatrica riducendo completamente il mistero a rappresentazione in qualche modo oggettiva e reifica il mistero stesso così violandolo e manipolandolo come se il mistero (altro nome per quello che qui intendiamo come ‘sacro’) fosse qualcosa in potere del soggetto. É come se il soggetto predisponesse uno spazio rappresentativo pronto ad accogliere il presentarsi del mistero per cui il mistero stesso viene ricondotto a tale spazio (questo avviene per esempio con l’introduzione della prospettiva in pittura). É il soggetto a disporre del mistero e non viceversa. L’arte sacra, invece, si apre al mistero in quanto mistero e lo fa per prima cosa sospendendo la rappresentazione cioè sospendendo il suo riferimento al rappresentato. Attraverso questa sospensione l’opera si apre ad una dialettica tra visibile ed invisibile. Questa dialettica poi non è di tipo oppositivo e non richiede la mediazione del concetto – a tal proposito potremmo parlare di un ‘idealismo senza concetto’ dove il visibile si apre e si espone all’invisibile (altro nome di ciò che qui stiamo chiamando ‘mistero’). Allora arte idolatrica sarà quella che riduce l’invisibile a rappresentazione per cui del mistero non ne è più niente; mentre arte sacra sarà quell’arte che dal suo stesso interno comporta quello che con il filosofo Merleau-Ponty potremmo chiamare il ‘chiasmo tra visibile ed invisibile’.
Cosa rende sacra un’icona? Proprio la sua apertura al mistero. Nell’icona non si rappresenta l’irrappresentabile – questo sarebbe ancora idolatria. Nell’icona si rappresenta e si deve rappresentare l’irrappresentabile in quanto irrappresentabile – questo è il sano paradosso che viene messo in opera dalla vera arte sacra. Se questo è vero il nostro prossimo passo sarà quello di passare ad un’arte cristica come coerente sviluppo di un’arte sacra correttamente intesa. Per capire tutto ciò basti ricordare il famoso passo della lettera di San Paolo ai Colossesi: Egli è l’immagine del Dio invisibile. L’unico modo di non considerare questa affermazione come contraddittoria è quello di osare esporsi al paradosso di una rappresentazione dell’irrappresentabile in quanto irrappresentabile. Quindi l’arte sacra deve essere arte cristica (a meno di diventare arte idolatrica) e l’arte cristica non può che concepirsi che come sacramento essendo il sacramento la manifestazione ed il segno visibile di una realtà invisibile e questo senza mediazione del concetto. Ma se l’arte cristica non può che essere arte sacramentale quest’arte sacramentale non può non essere un’arte liturgica e quindi eucaristica. Naturalmente queste denominazioni non vogliono essere espressione di una poetica o di una estetica di tipo confessionale – tutt’altro! Ci limitiamo ad usare con funzione euristica più che definitoria espressioni tipiche del credo, della tradizione e della teologia della religione cristiana per approfondire e mettere in questione in maniera radicale quanto di solito si chiama ‘arte sacra’. Infatti non possiamo parlare di una eventuale ‘arte sacra senza aggettivi’ come se potessimo coltivarla in vitro come si fa con una colonia di batteri. Noi apparteniamo ad una determinata tradizione (quella giudaico-cristiana) e non possiamo evitarlo; anzi il nostro atteggiamento critico viene potenziato dalla consapevolezza del fatto che la nostra riflessione sull’arte sacra non sia svolta in astratto ma abbia una provenienza. Parte fondamentale di questa provenienza – ai fini di ben comprendere cosa è in gioco nell’arte sacra così come la abbiamo circoscritta ed indagata – è la inevitabilità del passaggio per la religione ebraica (che proprio per questo è impropriamente definita religione diversa dalla religione cristiana – abbiamo infatti la medesima radice). Qui l’aspetto fondamentale è la credenza nella irrappresentabilità di Dio e la conseguente critica ad ogni idolatria che il popolo di Israele ha sviluppato nel corso della sua storia – senza tutto questo non potremmo essere in grado di cogliere il paradosso di un’arte cristica per cui un’arte è sacra se rappresenta l’irrappresentabile in quanto irrappresentabile, se si apre al mistero in quanto mistero.

Vogliamo ora dire qualcosa sul senso di un’arte liturgica intesa non come arte di tipo ‘confessionale’. Liturgia vuol dire il servizio ed il sacrificio di lode che una comunità rende a Dio. Un’arte liturgica quindi ha un aspetto essenzialmente comunitario. Ma prima di soffermarci sul fondamentale aspetto comunitario di un’arte che si voglia sacra (cioè aperta all’invisibile ed al mistero) dobbiamo sottolineare che un’arte liturgica è quell’arte che non soggiorna presso di sé compiaciuta della sua bellezza ma è un’arte che si consuma tutta nel far segno a ciò di cui è segno: in questo suo ‘tutta consumarsi’ sta il suo essere arte eucaristica. Allora tutto il nostro discorso sull’arte sacra tende ad un’arte di tipo alimentare (al riguardo tieni presente almeno Salvador Dalì e Piero Manzoni). Un’arte commestibile sarebbe quel fine che l’arte sacra non può raggiungere se non rinunciando ad essere soltanto arte, se non rinunciando a se stessa, se non consumandosi tutta nel suo veicolare l’invisibile ed il mistero. Come l’arte liturgica non può che essere arte eucaristica così l’arte eucaristica (a cui noi tendiamo asintoticamente) non può che essere arte liturgica cioè un’arte non dedicata al singolo individuo, bensì ad una comunità (la chiesa). A detta di Padre Marko Ivan Rupnik (colui che ha trovato la via che può già permettere all’arte sacra di uscire da quel pantano in cui è andata intrappolandosi almeno a partire dal secondo dopoguerra) l’arte è memoria della comunione. Allora l’arte eucaristica è un’arte comunionale. Essa deve anticipare e fare memoria della comunione a cui l’arte sacra ci deve condurre anche se questa comunione essa può viverla solo a patto della sua dissoluzione nella comunità stessa. Quindi perché si dia un’arte sacra occorre che si dia una comunità; ma d’altro canto perché si dia comunità si deve dare un’arte sacra in quanto cristica ed eucaristica intorno a cui una comunità possa stringersi.

Oggi che non viviamo più in una ‘comunità organica’ non è ancora possibile un’arte comunionale anche se l’arte come espressione dell’individuo (e non della persona) è entrata in una profonda crisi. Oggi crediamo che si debba parlare sulla scorta di Ivanov di un’arte monastica, di un’arte claustrale. Il monastero già nel suo nome esprime la nostra attuale condizione. Il monastero è etimologicamente parlando qualcosa come una ‘comunità di solitudini’. Oggi siamo chiamati a praticare quest’arte claustrale fino a quando un’arte sacra torni ad essere ancora non solo possibile ma anche effettiva e reale.

Stefano Valente